sabato 2 marzo 2013

Due isole, un nuovo continente. Di spazzatura

Giuliano Polichetti

Vi siete mai chiesti dove finisce tutta la spazzatura (soprattutto la plastica) che lasciamo in giro per strada o che finisce nei fiumi, nei laghi, sulle coste marine oppure che gettiamo con le nostre mani in mare, dalla spiaggia o dalle barche su cui viaggiamo?

Ebbene, sono decenni che questa si accumula nei mari e soprattutto nell’Oceano Pacifico, dove un gioco di correnti ha dato vita a una coppia di agghiaccianti mostruosità delle quali nessuno vuol parlare: tonnellate di rifiuti, per il 90% plastica appunto, accorpate in due sorte di enormi continenti galleggianti, scarsamente visibili dai satelliti e dalle navi in transito, che “dormono” appena sotto il pelo dell’acqua.

Non se ne parla e quasi nessuno lo sa forse perché l’interesse mediatico di questo sfacelo, del quale tutti abbiamo colpa ma nessuno ammette la paternità, è e deve essere pari a zero; tuttavia, secondo alcune stime decisamente ottimistiche la massa di rifiuti ha una superficie doppia di quella del Texas, secondo altre, invece, misurerebbe quanto l’intera superficie degli USA..



Western and Eastern Pacific Garbage Patches, letteralmente “isole di immondizia occidentale e orientale”, questo il nome dei due continenti i cui confini cominciano a circa 500 miglia nautiche dalla costa californiana, attraversano le Hawaii e arrivano quasi fino al Giappone. Una sconfinata distesa di plastica sminuzzata, bottiglie, palloni, spazzolini da denti, buste di plastica, filtri di sigarette e molto altro. 
La sua scoperta si deve a Charles Moore che nel 1997 incappò nel gigantesco “blob galleggiante” durante una regata; il suo sconcerto fu talmente grande da indurlo a lasciare il suo lavoro e creare una fondazione dedicata alla salvezza degli Oceani.

I pochi studi effettuati ci restituiscono uno scenario drammatico che denuncia la desertificazione delle zone interessate dalle isole di spazzatura.

Più di 300 specie marine sono a rischio estinzione perché le condizioni acquatiche sono ormai “incompatibili con la vita”
Di fatto, gli unici abitanti rimasti sono i grandi cetacei. E lo sono ancora per poco, di questo passo. La plastica riduce la possibilità di ossigenazione dell’acqua rendendola asfittica, limita il passaggio di luce e trattiene il calore (contribuendo al riscaldamento degli oceani), oltre a trattenere anche buona parte degli inquinanti oleosi derivanti dal petrolio; in sintesi, un disastro. A essere danneggiati sono anche gli uccelli marini che scambiando i rifiuti per cibo se ne nutrono per settimane e forse mesi, per poi andare a morire sulle coste in preda a una dolorosa e lunga agonia. Sono circa un milione di uccelli appartenenti a varie razze a morire ogni anno per ingestione di sostanze plastiche. E noi? Secondo gli studiosi dell’Algalita Marine Research Foundation (la fondazione di Moore), i pesci che finiscono sulle nostre tavole sono delle bombe tossiche: i minuscoli pezzi di plastica funzionano come delle spugne assorbendo agenti inquinanti di ogni sorta (come gli idrocarburi) e i pesci inevitabilmente se ne nutrono restituendoci a tavola la cortesia.


Questa massa, come potrete immaginare, è in continuo aumento

Continua a crescere di anno in anno come fosse un essere vivente, in realtà un mostro, divorando un intero ecosistema. Il problema è di dimensioni spaventose e le soluzioni possibili non sono di semplice attuazione, ma una cosa è certa: nel nostro piccolo possiamo fare molto, anzitutto diffondendo questa notizia e poi, inevitabilmente, dichiarando guerra a plastica e inciviltà. La posta in gioco è alta, il tempo finito: è ora di cambiare.

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